13 novembre 2013

Review: Black Sabbath - 13

 2013


Ritrovo questo disco in un cassetto, incredula di come fosse possibile che l'avessi dimenticato lì!
Stiamo parlando dei Black Sabbath, il gruppo che storicamente si posiziona come capostipite di un genere, l'Heavy Metal, e di molteplici dei suoi sottogeneri.
Proprio a uno di questi fa in particolar modo l'occhiolino questo album di ritorno di Ozzy e compagnia, ovvero a quel Metal che potremmo definire più moderno, proponendo però un prodotto che cerchi di non deludere la pluralità di ascolti che costituiscono il panorama.
Sembrano sentirsi infatti dei richiami a quel tipo di riff che potrebbero benissimo essere stati pensati dal buon Zakk Wylde. Che l'allievo abbia superato il maestro?
Di sicuro non si riscontrano i maniera così invasiva, ma se si tende l'orecchio i maggiori indizi si possono scovare in particolare in Age Of Reason e Methademic, la summa massima tra lo ieri e l'oggi della proposta musicale dei Black Sabbath.
L'aspetto che incontra in ogni caso le aspettative di chi scrive, ma che provoca forse un sorriso, è  il continuo inserimento di riferimenti alle pietre miliari della carriera dei quattro, nemmeno troppo celati. Della serie: "diamo ai nostri fans qualcosa di nuovo, ma non facciamo dimenticare loro chi siamo".
Ascoltate, ad esempio, l'intro di The End Of The Beginning e provate a cantarci sopra le strofe di Black Sabbath; oppure il ritorno del rumore della pioggia con le campane funebri in apertura della già citata Methademic, il che richiama il vecchio pezzo già citato; per non parlare di Zeitgeist che imita il pezzo più imitato dei Sabbath stessi, ovvero Planet Caravan, di cui ripropone esattamente i medesimi schemi.
Il mio fanatismo potrebbe proseguire all'infinito, ma lo disciplino e lo incìto a fermarsi qui. 
A mio parere proprio la componente di modernità è quella che più di tutti lascia straniti, ma è ovvio che sarebbe stata un'aspettativa mediocre il veder riproporre esattamente ciò che le vecchie glorie (concedetemelo) furono ormai più di 40 anni fa.
Complice sicuramente quell'abilità nel sollecitare le pelli che Bill Ward avrebbe potuto portare - avrebbe di sicuro contribuito ad un sound più riconoscibilmente sabbathiano. Non solo: si sente a mio parere anche la mancanza di quel suono corposo che Geezer Butler sembra aver dismesso insieme al proprio abbigliamento degno dei migliori tendaggi degli anni 70 (ridiamoci su!), senza parlare di quei spettacolari giochi di assoli che scambiava con Tony Iommi e che facevano perdere la mente nei meandri della pentatonica.
Ripeto, però, questo è ciò che furono.
Quello che ci propongono oggi è un album che merita di entrare a pieni voti nella discografia ufficiale dei Sabbath (sulla quale ho tutta una personalissima concezione), un disco con il quale gli inglesi ci ricordano che, nonostante le vicissitudini, il passare del tempo e l'evolversi della musica, i padri di tutto ciò che ascoltiamo e suoniamo oggi in questo ambiente sono indiscutibilmente loro.

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